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Addio, mago delle tastiere! Omaggio a Keith Emerson.

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Copertina di Qui Giovani, dedicata a Keith Emerson (dall’archivio personale di Daniela Vellani)

“Il pianista sale sul palcoscenico, s’inchina verso il pubblico, si siede al piano e poi lo fissa in un tempo interminabile”

Addio, Keith, mago delle tastiere!

Amo scrivere e le parole scorrono in me velocemente come un fiume in piena, eppure ora non riesco a trovarne perché una parte di me se n’è andata con la morte di Keith Emerson, ma farò il possibile per rendergli omaggio.

Ricorderò sempre le copertine di Qui Giovani, Ciao 2001 o di altri giornali dell’epoca, e alcune le conservo ancora, in cui il grande musicista appariva con i suoi lunghi capelli biondi e scalati come si portava allora, i giubbotti eccentrici, i grossi ciondoli, i jeans aderenti infilati negli stivali con i lacci, i cinturoni con simpatiche ed enormi fibbie.  Spesso era ritratto in momenti particolari che caratterizzavano la sua eccentricità o i suoi hobbies: quasi schiacciato dall’Hammond che accoltellava o abbracciava stendendoselo sul suo corpo e continuando a suonare tra l’esaltazione del pubblico, a cavallo di una moto di grossa cilindrata o in procinto di guidare il suo aereo personale o mente si accingeva a fare immersioni subacquee. Erano gli anni ’70, quelli della creatività, della voglia di stupire, della musica progressive e psichedelica, degli allucinogeni, dei megaconcerti ad altissimo volume che terminavano con esplosioni di fuochi d’artificio, quelli dei colori del rock, delle contestazioni e della voglia di cambiare il mondo, quelli dei grandi raduni e festival, quelli dei trentatré giri dalle copertine artistiche e da ascoltare o scambiare con gli amici, quelli della voglia di stare insieme e cambiare il mondo.

Sono sempre stata una nostalgica di quegli anni e così qualche anno fa mostrai ai miei alunni alcuni filmati tratti da concerti di Keith Emerson, il “mago o funambolo” delle tastiere. I ragazzi rimasero talmente stupiti dalla sua bravura, che scrissero brevi e divertenti recensioni. Le raccolsi, le tradussi e gliele inviai, mai aspettandomi una risposta. E invece arrivò, assieme agli auguri di Natale. Ebbene sì, arrivò, perché Keith Emerson era fornito delle virtù dei grandi: generosità e umiltà. Conservo ancora la sua mail, in cui, commosso, ringraziava i ragazzi a cui dava dei consigli sul loro futuro. I ragazzi si entusiasmarono e si fecero fotografare con i suoi dischi e così ricevettero ancora una risposta preceduta da un simpatico “Wow”. Qualche tempo dopo ebbi la fortuna d’incontrarlo a Napoli e mi presentai. Quando capì che ero la prof. degli alunni delle recensioni, mi abbracciò calorosamente come se mi avesse sempre conosciuto ripetendo: “You are the teacher!!!” e per me, sua fan storica, fu un momento magico.

Ebbi la fortuna di ascoltarlo, in meno di un anno, ben tre volte e nel 2010 mi recai a Londra per realizzare un sogno: ascoltarlo assieme ai suoi storici compagni: Greg Lake e Carl Palmer. Erano passati ben quarant’anni dalla prima apparizione in pubblico degli Emerson, Lake & Palmer e per l’occasione si riunirono e fecero un concerto fantastico, unico ed ultimo evento, in cui pur essendo in età avanzata, dimostrarono di avere ancora grinta e virtuosismo. È  stata l’ultima volta che l’ho sentito dal vivo e mai più ciò potrà accadere, perché purtroppo il mago delle tastiere, grande pianista e abile suonatore del moog, ieri ci ha lasciati. Si trovava in California, a Santa Monica, dove viveva da alcuni anni, accanto al suo adorato mare. Su quello che è successo si stanno avanzando diverse ipotesi che per rispetto nei suoi confronti e in quelli dei suoi cari, non voglio approfondire.

Keith Noel Emerson era nato il 2 novembre 1944 a Todmorden, un villaggio nelle Pennine Uplands nel Lancashire. Le sue doti musicali non tardarono a farsi sentire.  Fin dall’età di quattro anni aveva iniziato a strimpellare e ascoltava con grande ammirazione il padre quando si esibiva con la bella e preziosa fisarmonica di madreperla. All’età di otto anni iniziò a prender le prime lezioni regolari di pianoforte.   Desiderava migliorare la propria tecnica e diventare virtuoso come i grandi pianisti della storia.

Fin da ragazzo mostrò di essere ecclettico ed aperto a tutte le esperienze musicali,  capace di passare con disinvoltura e velocemente da uno stile all’ altro, caratteristica che gli consentì di essere un musicista unico, inconfondibile, che nelle sue creazioni musicali fondeva  rock, pop ,classico, jazz, blues, boogie, barrelhouse, dando luogo a melodie sublimi, inconfondibili, originali, vere e proprie opere d’arte.

Intorno ai 17 anni ebbe il primo approccio col jazz. Il padre continuava, infatti, ad incoraggiare Keith nelle sue esperienze musicali e gli comprava spartiti di musicisti come Fats Waller e  Jimmy Van Heusen e gli spiegò che quelli con simboli sconosciuti, che a lui sembravano formule chimiche, erano le complicate improvvisazioni del Jazz. Fu così che Keith (alla scoperta del jazz con Art Tatum, Thelonious Monk e Oscar Peterson), sperimentatore e improvvisatore, iniziò la sua gavetta nei locali blues e      fondò il Keith Emerson Trio in cui mise in evidenza il suo portentoso talento suonando in uno stile che ricordava il jazz di matrice nera.

Da allora la sua carriera musicale non si fermò più. Debuttò nel suo primo gruppo ufficiale: i T-Bones, una band che suonava Rhythm & Blues, fondata da Gary Farr. Successivamente fece parte dei  V.I.P.’s.  In seguito nel 1967,  per accompagnare   in tournée in Inghilterra la cantante statunitense P.P.Arnold, formò una backing band che successivamente fu chiamata su suggerimento della stessa cantante, Nice . Oltre a Keith Emerson, i componenti erano il chitarrista David O’List, il bassista Keith “Lee” Jackson ed il batterista Ian Hague, poi sostituito da Brian Davison. Con i Nice, con i quali incise diversi dischi,  s’ iniziò a delineare il suo stile tipico di rock sinfonico, in cui confluivano, in un mix originale e tipico, la musica classica, il jazz ed il rock con fusioni di sinfonie di Bach, Brubech e Dylan. Tale stile raggiungerà livelli di altissima qualità con l’incontro con Robert Moog e con  il  supergruppo che formerà nel 1970: Emerson, Lake & Palmer, pietra miliare del rock progressive, che ricevette consensi lusinghieri non solo dal numerosissimo pubblico, ma anche da grandi compositori come Copland e Ginastera. Da allora furono anni di successo planetario, tour, megaconcerti, uscita di lp che scalavano le vette delle classifiche delle vendite mondiali, creazione della casa discografica Manticore. Ovunque i tre erano acclamati e si riempivano gli stadi. Il primo lp, che portava il nome dei tre, fu subito un successo, seguito dal celeberrimo “Tarkus” con una suite unica ed eseguita successivamente da grandi orchestre, e poi la rivisitazione di Quadri ad una esposizione di  Modest Mussorgsky “Pictures at an exhibition”, “Trilogy”,” Brian Salad Surgery”, Welcome Back, My Friends, to the Show That Never Ends”, “Work 1”, “Work 2”, “Love Beach”,” Black moon”, “In concert”, “in the Hot Seat” e decine di raccolte e bootleg. La band dopo alcuni anni si sciolse, aveva perso la vena creativa e l’entusiasmo che avevano animato e caratterizzato i primi album. I tre Iniziarono percorsi diversi e formarono altre band, pur riunendosi di tanto in tanto per amichevoli e nostalgiche riapparizioni in pubblico. In Italia, oltre che per il trio storico, Keith Emerson raggiunse un momento di grande notorietà con le sigle di due edizioni della trasmissione televisiva della Rai Odeon con “Honky Tonk Train blues”  e “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin. Scrisse anche colonne sonore di film, tra cui “Inferno” di Dario Argento e negli ultimi anni stava riscuotendo un discreto successo con la Keith Emerson Band con cui ha inciso diversi dischi ed effettuato tour mondiali e recenti sono state le sue apparizioni in pubblico, assieme alla band o con orchestre.

La vita di Keith Emerson non è stata sempre facile. Anni fa ha scritto un’autobiografia “Pictures of an Exhibitionist” dove si mette a nudo e da cui emergono i numerosi momenti difficili che più volte l’hanno messo a dura prova e che ha sempre superato brillantemente, riacquistando grinta e fiducia, stavolta non è andata così…

Ma la musica, la sua musica continuerà a donare momenti magici. Le opere d’arte sopravvivono a tutto e le sue fanno parte della storia, un esempio che continuerà ad esercitare sui giovani la voglia di suonare e viaggiare nel pianeta della musica…

Conserverò sempre l’album “Trilogy” con la sua dedica sulla foderina, assieme a tutta la collezione della sua discografia. Grazie Keith, col tuo sorriso aperto, la tua signorilità e la tua simpatia, resterai sempre nel mio cuore e in quello di tutte le persone che hanno apprezzato, apprezzano e apprezzeranno la tua arte.

 

Daniela Vellani