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Napoli, al Piccolo Bellini, successo per “Mare di ruggine. La favola dell’Ilva” di Antimo Casertano

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foto di Roberta Fusco

Riapre la stagione teatrale napoletana con nuove storie da scoprire ed emozioni pronte a fare breccia nel cuore. Sotto un rinnovato cielo di promesse, al Teatro Piccolo Bellini è in scena fino al 6 ottobre “Mare di ruggine. La favola dell’Ilva” con Daniela Ioia, Ciro Esposito, Francesca De Nicolais, Luigi Credendino, Gianluca Vesce, Lucienne Perreca, Antimo Casertano. Debuttato il 26 settembre con un sold out meritato, il testo e regia di Antimo Casertano, per il progetto di Compagnia Teatro Insania, è la storia di una tragica pagina del nostro paese. A Napoli come a Taranto, Genova e Piombino, lo stabilimento Ex Ilva, poi Italsider di Bagnoli, è “il mostro di ruggine di una favola senza fine”: il protagonista di un racconto ma soprattutto di una realtà nota alle famiglie di cinque generazioni di lavoratori che si sono sporcati le mani nell’altoforno dell’Ilva.

“Il cantiere in questa città è l’unica alternativa”

Quella dell’Ilva è “una favola che proprio favola non è”: ha un inizio lontano ma la sua fine non c’è. “Una favola di mostri e lavoratori” dove il protagonista è la ruggine: “un pezzetto di mare, un mostro color ruggine e il mare di Bagnoli”. Il mostro viveva sul mare con uomini desiderosi di farne parte grazie a sicure promesse. Se l’uomo risponde dalla parte giusta, egli potrà mettere a disposizione i propri calli per quel posto: il posto fisso.

“Oggi è il tuo primo giorno all’inferno”

L’altoforno è alimentato continuamente, ciò provoca un vento torrido che stordisce i sensi. La prima volta è normale avere paura, “gli incidenti fanno paura, la morte fa paura”, eppure gli operai devono imparare a volare. “È solo un vento caldo”, e a denti stretti, tutto si fa con sacrificio e cuore. A ripagare, una festa fatta con coriandoli di carbone, veleno per i polmoni, lanciato dal padrone, un maiale, come per Orwell. Non serve a nulla lottare, perché l’obbedienza è l’unica via quando pensare è vietato.

“Parliamo da uomo a uomo. Terra terra. Tu un lavoro ce l’hai?”

Nonostante le generazioni che si susseguono, la costante è la stessa: il cantiere in città è l’unica alternativa. La guerra ha fermato solo per poco il lavoro dell’Ilva e le ambizioni sono tante negli anni in cui “il piano Marshall si fida di noi”. Dopo due anni di costruzione con le mani degli operai, si apre il sogno di “ricostruire l’Italia con il carbone”. Un progetto avido ricamato sulla pelle degli operai dell’Ilva diventati gli spazzacamini di Bagnoli: neri dal carbone, costretti a respirare fumo e ad abituarsi agli incidenti e alla morte.

“Fa caldo qua dentro”

Gli scioperi, la crisi del carbone, l’acciaio, l’eternit: il continuo ridimensionamento e ristrutturazione di un cantiere dove in realtà tutto era controllato e gestito dagli altri. “L’avidità è il vero cancro della terra”, capace di violare l’uomo costringendolo a fuggire da un incubo ad occhi aperti. Perseguitati ovunque da un male invisibile, figlia del mostro, la malattia del forno arriva e colpisce di sorpresa. D’un tratto delle cellule tumorali invadono il corpo e inaspettatamente tutto cambia, “succede nonostante tutto”. S’invoca la resa quando a perdere è di nuovo la classe operaia.

“Sono passati anni ma fuori c’è ancora un mare di ruggine”

Nonostante il cuore del cantiere si sia spento, il finale non è ancora scritto. La favola dell’Ilva è ancora un veleno che pesa sulle famiglie e su tutti coloro che guardano quel mostro spento. Mare di ruggine è una storia generazionale. Come Antimo Casertano tiene a ricordare, di padre in figlio, l’Ilva è stata l’unica strada per alcuni padri delle famiglie napoletane. La pièce non simboleggia solo un cantiere, ma giornate di fatica di uomini che hanno sacrificato il sangue per il carbone, l’acciaio e il peso dell’indifferenza.

Roberta Fusco