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Musica: intervista a Giacomo Riggi, che ritorna con “11 Windows”, il quinto album

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È uscito il 24 giugno “11 Windows”, il quinto album di Giacomo Riggi. Difficile da catalogare, come lui stesso ammette, il musicista toscano torna a comporre per pubblicare un disco ricco di scorci sul suo essere e sul mondo.

 

Utilizzando la metafora della finestra come possibilità per vedere oltre, Riggi si mette a nudo aprendo 11 finestre su sé, invitando l’ascoltatore ad osservare situazioni ed emozioni diverse che sono state immaginate per tirar fuori tutto il necessario per esprimersi. Passando da sonorità più acustiche a quelle elettroniche ma con violoncelli onnipresenti, le lingue – inglese, italiano e, per un lampo, lo spagnolo – si alternano per 11 brani di sfaccettature variopinte.

 

Il risultato? La presentazione di un musicista dai colori splendenti e dalle sonorità confortanti come quelle di un abbraccio. Un gioco sapiente di contrasti, di cui ci siamo fatti svelare alcuni trucchi attraverso un’intervista.

 

Partendo dal titolo, “11 Windows” a cosa rimanda?

 

Ho pensato a 11 modi per farmi conoscere per quello che sono e quello che scrivo, sia nella musica che, di conseguenza, nella vita reale. La maggior parte dei brani parlano delle mie esperienze e della mia vita privata, è una condivisione da questo punto di vista. Quindi sì, sono 11 finestre, facce su di me, diciamo.

 

Facce che, da come ho potuto captare, rimandano a diversi temi: si parla d’amore, il quale può essere perduto e non, si parla di speranza, di memoria, ma anche di dialogo, in amore e in famiglia.

 

Verissimo, sì. Si parla di dialogo.si parla d’immaginazione, anche, molto. Mi vengono in mente adesso due delle canzoni, le quali sono cose che non sono successe ma che immagino possano essere così o diventare così; o mi sono immaginato quello che avrebbe fatto il me in un’altra dimensione. Quindi sì, c’è anche molta immaginazione, desiderio.

 

Parlando d’immaginazione, il processo creativo che ti ha portato a questi brani?

 

Diciamo, prima di tutto, quello che io vivo e penso nella realtà. Ciò che ho necessità per forza di cose di mettere in musica: per forza di cose, intendo, per stare meglio, per sentirmi libero o per celebrare qualcosa di bello ma anche per esorcizzare qualcosa. È il mio modo per tirare fuori quello che ho nella maniera più spontanea e più vera. Musicalmente come sono nati? In diversi momenti devo dire. Dico sempre che alcuni di questi brani sono nati in un periodo in cui ero un po’ bloccato dal punto di vista creativo: un blocco dell’ispirazione. Però mi sono ricordato quello che diceva Stravinskij. Lui non era d’accordo con tutti quei compositori che scrivono aspettando questa famosa ispirazione, perché spesso comporre e scrivere è un lavoro, quindi diceva: anche se non avete ispirazione, scrivete qualcosa tutti i giorni, magari anche quattro battute, però quelle le avete scritte. Quindi in un momento del genere mi sono ritrovato così: “sfidiamo-mi”, mi sfido, per 24 giorni devi scrivere qualcosina di piccolo, di minuscolo, in tutte le tonalità. E niente, dopo un po’ alcune di queste cose non erano più pezzettini piccolini ma sono diventate canzoni che alla fine ho messo nel disco. Posso dire che questa è una cosa mi dà soddisfazione, ne sono felice.

 

Alcuni nascono prima dai testi, altri prima dalla musica…

 

Sì, assolutamente, a volte anche dall’ispirazione di una piccola cellula ritmica oppure, non lo so, un titolo: e dal titolo vengono fuori altre cose.

 

Riassumendo, il processo creativo può cacciar fuori di tutto. Uscire da un periodo di blocco, ed immergersi all’interno della musica per entrare in sé stessi e mettere in note tutto quello che si ha bisogno di dire, è all’origine del prodotto finale: un nuovo brano o un album, ad esempio. Nel tuo caso, hai scelto la metafora della finestra. Non credo sia a caso, perché?

 

No, assolutamente. Ho pensato alla finestra perché è come ritrovarsi dentro qualcosa: dentro una stanza, dentro un teatro, o una casa, semplicemente. È quella che ti permette di vedere ciò che c’è fuori, la bellezza esterna. E devo dire, la bellezza sta proprio nel fatto che ognuno di noi vede delle cose diverse. Mi piace il fatto che io cerchi, ci provo almeno, di portare le persone in quella casa, che sono sempre io fondamentalmente, e dalla finestra vedere il me sotto diverse forme. Mi piace il concetto della finestra come visione su quello che c’è fuori dal dentro o anche il contrario.

 

11 scorci diversi da vedere e sentire. In questi 24 giorni di produzione, per arrivare a questi scorci, cosa ti ha ispirato maggiormente?

 

Non è facile rispondere a questa domanda perché rischio di andare troppo spesso nel filosofico. Ma diciamo, principalmente, le cose che m’ispirano di più e mi danno stimoli sono le sensazioni e quello che provo in maniera forte. Solitamente sono o grande felicità o grande euforia da qualcosa che sta succedendo, o anche dalla grande tristezza. Ecco, molto spesso arrivano da ansia, angoscia, tutto quello che di brutto si sente. Questo è fondamentalmente quello che mi ha dato la motivazione per fare questa cosa e anche, devo dire, la costanza nel farlo per 24 giorni: anche se non hai voglia, anche se hai la febbre, qualsiasi cosa accada. Poi alla fine ti dà molta soddisfazione, perché ti guardi indietro e dici: “L’ho fatto!”.

 

Una sorta di gratificazione personale che ti fa rendere conto che alla fine lo fai per te stesso.

 

Chiaramente vuoi condividere queste cose. Ognuno di noi ha bisogno di essere gratificato anche dagli altri perché, non so, la parte narcisistica ha bisogno anche della sua soddisfazione. Però principalmente dovremmo farlo per un esigenza personale proprio, secondo me.

 

Sono dell’idea che faccia parte dell’essere coerenti sentimentalmente con sé stessi e il pubblico. Se non si hanno emozioni che necessitano di essere trasmesse, per essere d’aiuto anche al pubblico, è inutile fondamentalmente.

 

Questa è la grande differenza. Alcuni producono, o dicono cosa produrre per un mercato specifico. Per noi artisti indipendenti, le cose nascono da un’esigenza personale e ci mettiamo in gioco in maniera totale perché scriviamo cose nostre, rimangono nostre e non sono dettate da nessuno o spinte da nessuna presenza esterna. Da un certo punto di vista è un doppiamente mettersi in gioco, è anche mettersi a nudo.

 

Musicalmente, quali sono state le tue ispirazioni?

 

Chiaramente dopo un po’ di anni si va nel bagaglio personale, in questo caso è un disco di canzoni cantautorali, quindi si va verso quello che ho sempre ascoltato e amato. Sia verso questo amore incondizionato per gli archi, infatti ce ne sono tantissimi nel disco, il violoncello in particolare. Ciò porta indietro al conservatorio, quando mi hanno avvicinato alla musica classica e alla musica romantica soprattutto, la quale mi attraeva di più. C’è molto di quello, soprattutto negli arrangiamenti, nell’armonia. C’è la musica classica, ci sono influenze Radiohead che ascolto molto, nella roba italiana secondo me c’è Concato, uno dei cantautori che ho sempre amato di più. È queste penso siano le ispirazioni: un miscuglio di vari amori, ed è normale che sia così. Uno all’inizio ascolta tanto, poi cerca di far sue tutto per poi tirare fuori qualcos’altro. È normale se dentro la nostra musica ci sia sempre qualcosa che ci siamo portati dentro da tanti anni.

 

Tante cifre stilistiche che escono fuori con certi temi, rendendo ogni pezzo singolare.

 

Sono molto diversi tra di loro. A parte che è la prima volta che pubblico in italiano, ma è stato volutamente diviso in due parti: italiano e inglese, perché si differenziano molto dal punto di vista stilistico, di arrangiamento, come l’elettronica presente nella parte inglese e molto più acustica sulla parte italiana.

 

Quindi, è voluto il fatto di renderle così differenti o è stato spontaneo?

 

Spontanee sono tutte le cose che ho voluto mettere dentro. Pensato è stato l’ordine delle cose. Queste 11 finestre devono essere 11 finestre su tutto quello sono e quindi, se io sono queste cose diverse, è sicuramente un’arma a doppio taglio. Diciamo, molte persone non riescono a catalogare e dà fastidio un po’: chi è in realtà, fa musica in italiano o in inglese, jazz o cantautorato? È difficile. Però ho voluto rischiare, sono questo e chi ha necessità di catalogare, o trova una parola o non lo fa. Ma, ho pensato all’ordine. Ho pensato di mettere i brani alternandoli e seguendo una logica basata sulla musica, sul mood, sullo stile dei brani. Invece poi ho pensato è meglio presentare il lavoro come due lavori differenti uniti: due mondi diversi, divisi da una roba ancora diversa, totalmente acustica da camera con quartetti di violoncelli e in spagnolo, tra l’altro. Uno spartiacque, diciamo.

 

Immaginavo che lo spagnolo facesse da separé. Quindi perché la scelta di “You Know I Will”?

 

Ci sono vari motivi. È l’unico brano del quale non ho scritto il testo, ma è stato scritto da un caro amico americano Luke Polipnick, un chitarrista molto bravo. Perché era presente lui, perché sono presenti due ospiti, il rapper australiano Jayden e Claudio Filippini, ma c’è anche Carolina Bubbico ai cori. Insomma, ci sono una serie di motivazioni. Poi c’è da dire una cosa che non è andata in porto come previsto. La mia intenzione per presentare il progetto era quella di uscire con un brano in inglese e poi successivamente con uno in italiano. Purtroppo, per una serie di motivi che non ti sto ad elencare, non è avvenuto. Quindi, ecco peccato, la mia intenzione era quella di far uscire due singoli dei due mondi diversi: non è successo e buonanotte al secchio!

 

Ma c’è ancora tempo. Piuttosto, riprendendo le tue parole: è difficile catalogarti, perciò, come ti definisci?

 

Eh. Come mi definisco? Mi definisco… io mi definirei semplicemente un musicista. La mia è una visione più globale, ma il musicista è la persona che fa musica, quindi suona uno strumento, nel mio caso più di uno, e scrive musica, strumentale e non. È la cosa che forse mi s’addice di più perché poi, cercare di mettermi in uno stile, ho dei dubbi che si possa fare onestamente. Scrivono anche polistrumentista, va bene, ma a volte da un po’ un senso di borioso e non lo sono. Cantante? Ecco, Carolina Bubbico, ad esempio, viene definita cantante: certo, è bravissima ma oltre, lei scrive, compone e dirige molto bene. Molto spesso ci si ferma a quello che uno produce o tira fuori ma se uno provasse a mettersi nei panni di una persona che ama fare più cose, forse capirebbe.

 

Per l’appunto, nell’album è molto presente Carolina Bubbico, al punto da incidere un brano insieme. Immagino sia stato spontaneo.

 

Molto, molto spontaneo. Come la maggior parte delle cose quando si fa musica con Carolina, ma anche con Filippo (ndr. Bubbico) devo dire. È perché si sta lì insieme, abbiamo anche vissuto insieme per un po’, quindi ogni giorno è spontaneo: si va lì, si suona un po’, si fa un po’ di jam. Lei mi fa sentire una roba e io gli faccio sentire un’altra cosa, e così nascono cose. Quasi mai è successo che ci si mette a tavolino per decidere cosa fare perché dobbiamo farlo. Magari sarebbe anche bello farlo, però in questo caso non è stato così, soprattutto per il brano scritto insieme. In questo caso, il testo è venuto dopo la musica e lì ci siamo messi insieme a pensare di cosa parlare e a come scriverlo. Però è bello anche quello, è comunque un lavoro fatto insieme, spontaneo anche devo dire.

 

Passando ai concerti. Sentendo l’album è molto intenso, come progetti il live?

 

Lo sto progettando in un modo un po’, come dire, ambizioso per necessità di cose che mi piacerebbero fossero così. Mi piacerebbe andare in sestetto, nel senso, con la sezione ritmica, chiaramente, di basso, batteria, chitarra e due violoncelli, che cantino anche. I violoncelli sono sempre presenti, anche le voci sono importanti, quindi già lì non è facile trovare due violoncelliste che cantino, non è scontato. Poi ambizioso anche per il cachet, quindi voglio dire, devi giocare al gratta e vinci e sperare. Ma voglio essere positivo e spero vengano fuori cose interessanti.

 

Ultima domanda. Cosa vuoi trasmettere all’ascoltatore con “11 Windows”?

 

Mhm..vorrei trasmettere autenticità. Sì, è la parola giusta: una cosa che piaccia o non piaccia, ma che sia autentica, vera. Questa è la cosa più importante. E poi, se entriamo in merito ai gusti personali, non ci si può fare niente ed è giusto se a qualcuno piaccia e altri no. È assolutamente normale e bello che sia così. Però, mi dispiacerebbe se non passasse il senso di realtà, il vero io: quello che scrivo, mi piace e sono. È questo fondamentalmente, poi magari se qualcuno si ritrova in qualcosa di cui i testi parlano o nel mood, è ancora meglio. Non è detto, ma…

 

 

 

Roberta Fusco