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Per il terzo anno di fila, Electroshock Therapy (EST) è in finale alla Biennale di Venezia, per Biennale College Teatro 2024, nella sezione internazionale Performance site-specific. Il bando per tutti i cittadini italiani e stranieri maggiorenni under 40 è promosso con l’intento di dare voce e visibilità a chi opera nell’ambito teatrale. Con Deadline, il collettivo EST partecipa al tema di quest’anno, Niger et Albus (bianco/nero), passando di nuovo tra i primi dieci della selezione finale.
EST nasce durante il lockdown dopo una chiacchierata tra Ilaria Delli Paoli, attrice e performer, e Paky Di Maio, compositore e musicista di musica elettronica. L’incontro con Francesco Palladino, visual artist, consacra l’inizio di un viaggio partito nel 2020 e arrivato ad oggi a suon di arte. Il percorso è un’occasione di studio per i tre artisti e un modo per buttare giù in una sola performance uno spettacolo unico. Cercando di riunire immagini, musica e parole, EST porta sul palco un rapporto simbiotico e interdisciplinare che rende omaggio alla cultura e all’arte tutta.
In vista di questa nuova avventura, abbiamo parlato con Ilaria Delli Paoli prima di partire per Venezia.
Per il terzo anno di fila siete finalisti alle Biennale di Venezia. Oltre all’importanza della cosa, com’è dal tuo punto di vista?
Detto tra noi, sinceramente non me l’aspettavo quest’anno. Magari sai, il primo anno che accade è una cosa nuova, il progetto è nuovo ed è tutto bellissimo e meraviglioso. Il secondo anno si pensa che forse vogliono vederci e capirci qualcosa in più. Quest’anno abbiamo partecipato perché sarà l’ultimo della direzione Ricci-Forte, poi dal prossimo anno cambierà. Ci siamo detti “partecipiamo” perché il tema lanciato “bianco/nero” ci apparteneva tantissimo. Non pensavamo che ce l’avremmo fatta, infatti quando è arrivata la notizia che eravamo in finale siamo stati molto sorpresi e felici, perché arrivarci vuol dire che ci hanno visto qualcosa in questo progetto, e non è più mera curiosità ma volontà di capire. È vero anche che in questi tre anni ci siamo sempre reinventati.
Del tipo?
Il primo anno andammo lì con una struttura abbastanza complessa di testi con tre videoproiettori, ma solo prima di dirci che ci saremmo esibiti alla luce del sole, per questo proponemmo delle alternative. Il secondo anno abbiamo rimosso i videoproiettori e creammo una performance dove eravamo in scena io e una danzatrice, Roberta De Rosa, con un monitor che ci sovrastava, a mimare un occhio che seguiva per tutto il tempo i nostri movimenti. Quest’anno, abbiamo tolto anche tutta la parte di immagini e video e in scena il nostro visual artist, Francesco Palladino, il quale nasce come street artist, realizzerà dei graffiti dal vivo. Abbiamo quindi un’interazione in scena io e lui, separati da un telo di plastica 4x4m, come struttura autoportante, dove lui farà dei graffiti con delle bombolette. Interagiamo ai due lati del telo, quindi in base ai testi che cambiano, lui disegnerà a mano su di essi e verranno cambiati di volta in volta.
È molto interessante questo tipo di interazione. Sembra un modo per rendere il vostro progetto ancora più interdisciplinare, oltre che più complesso.
Molto complesso e soprattutto sempre in evoluzione. Ci siamo adattati e abbiamo cercato delle soluzioni che potessero essere compatibili con la loro richiesta. Siamo andati già due volte in finale e nei colloqui con loro abbiamo parlato e cercato di prendere tutto quello che abbiamo imparato in questi due anni. Abbiamo pensato di realizzare qualcosa che sia effettivamente compatibile con una performance all’esterno, in pieno sole a giugno e che al tempo stesso faccia parte della nostra natura, identità, che rappresenti cosa sia Electroshock Therapy. Per questo abbiamo scelto i graffiti e per la prima volta andiamo in scena così. Usiamo sempre i supporti video ma, ripeto, Francesco è uno street artist dal ’92, non si improvvisa, poiché nasce prima come street artist e poi come visual.
Come siete riusciti ad incastrare il progetto con il tema del bianco e nero?
Il bianco e il nero è un concetto che ci appartiene tanto. Anche in Disintegrazione abbiamo lavorato sul bianco e il nero come dualità, conflitto, contrapposizione, due opposti che si attraggono ma si respingono. Qui abbiamo lavorato come ex novo, su uno studio che fosse totalmente nuovo e inedito. Abbiamo scritto e riportato due tematiche, il concetto del fine vita e dell’identità di genere. Deadline è una linea di confine e separazione: il nostro bianco e nero. Non è mai in realtà solo bianco e nero, perché noi ci vediamo sempre il grigio dentro, così come nel fine vita e così come nell’identità di genere.
Come avete affrontato i due soggetti? O almeno secondo te.
Quando abbiamo scoperto il tema e partecipato, abbiamo poi ragionato e deciso di cosa parlare. Sono venuti fuori tantissimi temi ma quello che ha messo d’accordo tutti e tre sul primo pezzo da creare era quello appunto sul fine vita. È un argomento dibattuto, bianco o nero, ma per noi invece ci sono tantissime sfumature nel centro che andremo ad affrontare nel pezzo, le quali non ti possono portare a prendere una posizione così netta sul se sia giusto o no decidere di togliersi la vita, rispetto a una vita travagliata con malattie. Prendere una decisione del genere è una cosa così difficile, personale e soggettiva che non può essere vista come bianco o nero.
Mentre l’identità di genere? Che avete toccato anche con disintegrazione in un certo senso.
La discussione è stata la medesima. La proposta è partita da me, in quanto mi sono laureata con una tesi proprio sull’identità di genere e avevo degli studi e delle interviste che mi hanno messa in una condizione molto neutrale rispetto a questo argomento. Ci si dibatte, se ne dicono tante, ma anche la questione dell’identità di genere per noi ha una sua forma. L’identità si crea nel momento esatto in cui vieni concepito e non è una cosa soggetta ad influenze, o come si pensa a frequentazioni. L’identità ti appartiene da quando nasci, che può non essere la stessa del tuo sesso biologico di appartenenza, ma è una cosa che fa parte di te dal momento stesso in cui vieni concepito, quando sei ancora nel grembo materno già c’è la tua identità, cosa tu sentirai di essere. Noi la stacchiamo dalla parola genere perché è proprio una questione identitaria, di riconoscersi nel guardarsi allo specchio.
Seguendo il filo, si ricollega alla scelta di come decidere della propria vita e della propria morte.
Esatto, la libertà. Essere liberi soggettivamente e individualmente di prendere delle decisioni riguardo la propria vita e di sentirsi come ci si sente e di non avere vergogna, timore, di non soccombere al pregiudizio. Oggi è facilissimo puntare il dito e dire la propria, attraverso i social siamo tutti liberi di dire la nostra, in maniera anche molto violenta, delle volte, senza preoccuparci di chi dall’altra parte dello schermo riceve il messaggio. E si fanno dei guai. Il rispetto della libertà altrui e il rispetto dell’altro in quanto altro, al di là di quello che le etichette lo costringono ad essere. Fondamentalmente, le etichette sono gabbie.
Anche ciò ricorre nel vostro progetto. È bello, a mio parere, che voi abbiate toccato due aspetti della vita e dell’identità. Ciò che fa parte del nostro conscio e della fine di esso. Credo siano elementi fondamentali per parlare dell’essere.
Sì, e ti ripeto, tutti e tre ragioniamo tanto prima di creare un pezzo perché dev’essere qualcosa che ci metta d’accordo tutti. Lo svisceriamo, ci facciamo anche da avvocati del diavolo chiedendoci fin dove possiamo arrivare e perché. Poi quando decidiamo, prendiamo la strada e scriviamo. Sono tanti anni che tutti e tre, per un motivo o un altro, lavoriamo insieme, ci conosciamo molto bene, prima di creare il collettivo eravamo amici da tempo tutti e tre, e questo rapporto così sincero ci permette di dirci le cose anche quando non vanno o non ci piacciono nell’uno o nell’altro: avendo voce in capitolo, l’uno nell’arte dell’altro.
All’interno del vostro progetto si genera un tipo di arte non solo interdisciplinare ma simbiotica. È molto particolare.
È vero anche che siamo molto affiatati come collettivo. Quando siamo nati nel 2020, durante la pandemia, abbiamo avuto tutto il 2021 per consolidarci, il periodo della zona rossa, i teatri erano fermi, nessuno lavorava, ci hanno permesso di chiuderci e lavorare per creare Disintegrazione, uscito a fine 2021. La prima biennale è stata proprio il lancio per noi, perché abbiamo trovato la strada perfetta per lavorare e consolidarsi molto come collettivo.
EST è un progetto in evoluzione, sempre un continuo rigenerare.
Sempre, non è mai uguale. Pensa di vedere uno spettacolo, rivederlo dopo un mese e magari sono cambiati i visual, un pezzo, o qualcos’altro. Ad esempio, Francesco cambia in continuazione i visual, anche dal sabato alla domenica: una volta, si mise, lavorò tutta la notte e il giorno dopo ci presentò i visual nuovi. Noi diamo libertà l’uno all’altro di poterlo fare, non ci chiudiamo nelle gabbie. La libertà è la nostra parola chiave.
Il collettivo nasce al Teatro Civico14, giusto?
Sì, il Civico14 ci sostiene. Io sono socia, ed è lì dove siamo nati, la nostra sede in cui lavoriamo e abbiamo la nostra stanza dove abbiamo tutta l’attrezzatura montata sempre e proviamo costantemente. Non proviamo solo in vista di spettacoli o bandi, ma ci incontriamo periodicamente e creiamo, buttiamo giù idee, sperimentiamo. Pensa che per Deadline, tra l’altro, il bando di selezione scadeva il 9 gennaio e, sia io che Francesco abbiamo avuto il Covid fino al giorno prima. L’ultimo giorno ci siamo incontrati per girare un video per la selezione da 7 minuti da inviare. Siamo riusciti a registrare, montare e inviare senza avere modo di provarlo se non a distanza. È stato un delirio, dicevo ai ragazzi che non ci avrebbero presi. Poi ci siamo detti che succeda quello che succeda, facciamolo, e lo dobbiamo fare e se non ci prendono pazienza, abbiamo fatto il nostro. E invece, dopo neanche dieci giorni mi hanno telefonato dalla Biennale per dirmi che eravamo stati selezionati per andare in finale. Lì erano 7 minuti, ora in finale ne dobbiamo portare 20.
L’emozione di questo viaggio a Venezia, come la state prendendo?
A parte gli acciacchi di salute, che per l’ennesima volta mi affliggono, siamo felicissimi e non vediamo l’ora di tornare per il terzo anno lì. Ormai sappiamo già dove andare a mangiare, conosciamo la zona e abbiamo preso anche l’appartamento sopra l’arsenale, per non farci le corse con le valigie sui ponti di Venezia. Quest’anno siamo un po’ più esperti.
Quindi diciamo meno ansia e più divertimento per una volta!
Quest’anno, sì! Il primo anno è stata un’ansia, mi ricordo che avevamo la finale alle quattro del pomeriggio e quella mattina scesi da sola per le vie di Venezia perché ero devastata dall’ansia. Quest’anno siamo tranquillissimi, perché ci siamo resi conto che è un’esperienza che ti devi godere. Abbiamo pochissime possibilità di vincere perché siamo in dieci in un concorso internazionale. Non ci interessa neanche più di tanto, già essere stati chiamati in finale per il terzo anno di seguito per noi è una cosa molto molto importante.
Per il prossimo futuro? Se questo è l’ultimo anno alla Biennale, dove volete portare il progetto?
Il 31 maggio saremo al teatro della Limonaia, per un festival estivo dove ci hanno selezionato. Poi vedremo. Il nostro è un tipo di spettacolo e di performance non etichettabile, né come concerto né come teatro, e ammetto che c’è difficoltà nella distribuzione. Essere così ibridi è come se spaventasse i programmatori. Vedremo dove ci porta l’anno nuovo, sicuramente continueremo a studiare.
Roberta Fusco