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Grande commozione e lunghi applausi per VajontS 23, in scena lunedì 9 ottobre alla Sala Assoli di Napoli. Il progetto VajontS 23, organizzato da Marco Paolini, ha visto la partecipazione di più di cento teatri, uniti per mettere in scena il racconto e ricordo del grande disastro del Vajont, in occasione dei 60 anni dall’accaduto proprio nel giorno del 9 ottobre. Casa del Contemporaneo, Associazione Assoli e Le Nuvole hanno deciso di farne parte coinvolgendo i loro quattro teatri: Sala Assoli nel cuore dei Quartieri Spagnoli, Teatro dei Piccoli, Teatro Karol e Teatro Ghirelli.
In Sala Assoli, diretti da Rosario Sparno, a raccontare la storia di un disastro annunciato, c’è l’attore Luca Iervolino e il divulgatore scientifico Massimo Ruccio, preceduti da Padre Alex Zanotelli, in un video monologo. La scena appare scarna, solo una scrivania, un leggìo e una lavagna: il necessario per presentare un evento assurdo. A lasciare sgomenti sono la sagacia di Iervolino e la pacatezza di Ruccio, qualità che si sono congiunte per uno straziante racconto sulle vicende che hanno preceduto i quattro lunghi minuti della tragedia. Presentata come una lezione scolastica divisa in capitoli, le parole pronunciate dai due interpreti risultano gelide, tali da trasmettere appieno il terrore, l’angoscia e la paura di quella straziante notte.
È il 1963, quando 1.917 persone, di cui 487 minori, perdono la vita sotto la frana precipitata dal Monte Toc, nelle acque del bacino idrico alpino della Valle del Vajont. Erto e Casso, i due comuni nella parte superiore del bacino, risultano quasi illesi, mentre Longarone, comune alle pendici della diga, verrà distrutto in un sol colpo. Circa 25 milioni di metri cubi d’acqua sono riusciti a scavalcare la diga, trascinando con sé sassi e detriti, causando un’onda d’urto pari al doppio di una bomba atomica, sganciata sul comune a smembrare e polverizzare tutto ciò che avrebbe incontrato. I dettagli del disastro sono agghiaccianti, e inutile fu, gridare al vento sull’imprevedibilità dell’evento. La tragedia era preannunciata: un assassinio compiuto consapevolmente da parte di chi voleva mantenere il monopolio idroelettrico. Un delitto realizzato dall’audace proposta di costruire la diga più alta del mondo, così alta da far tremare i polsi. Nonostante i dubbi sull’instabilità furono chiari fin dal principio, vano fu il tentativo di richiedere una messa in sicurezza per evitare l’incombere di una catastrofe: “Le frane le governiamo noi”, fu la risposta da parte di ingegneri e sismologi. Spazzate dall’onda del Vajont furono le preoccupazioni da parte dei cittadini, da anni spaventati per le continue frane causate dalle fessurazioni del terreno, e per quelle indagini geologiche poco chiare. Ormai, era troppo tardi. La mancata diligenza ha dato vita ad un rischio calcolato, provocando quella che fu definita “L’Hiroshima delle Dolomiti”.
Parafrasando Padre Zanotelli, l’uomo convinto di poter governare il mondo, di poterlo modellare a suo piacimento, non ha badato a spese sulla vita altrui. Dal 1963, ogni qualvolta che non c’è attenzione sull’ambiente, accade un nuovo Vajont. I disastri ambientali sono la conseguenza di un atto egoistico umano per perseguire il progresso industriale: ma il surriscaldamento globale ha dimostrato che l’assenza d’acqua sarà sempre maggiore con il passare del tempo, mettendo a rischio il benessere dell’intero ecosistema. Continuando con le parole di Zanotelli, se per il 70% l’uomo è fatto d’acqua, le vicende odierne continuano a ricordare che ancora oggi non è diritto umano usufruirne liberamente senza tassazioni: come a negare il diritto alla vita, l’uomo continua a costruire dighe e a canalizzare torrenti, impassibile delle cause.
Ma l’arte non resta insensibile. In un azione corale di teatro civile, VajontS urla alle menti, provoca lacrime e ammutolisce i presenti. E sul palco di Sala Assoli anche Luca Iervolino e Massimo Ruccio non trattengono l’emozione davanti al silenzio calato sulla platea, e sgomenti chiudono:
“A volte ci dicono di osservare un minuto di silenzio. È una fesseria. I silenzi non si osservano, si cantano. Bisognerebbe cantarli. Non c’è una canzone per il Vajont. Il vostro silenzio è quella canzone. Grazie, e non dimentichiamo. Fine.”
Roberta Fusco