Intervista a Mudimbi, dopo “AH” è in uscita il singolo “Sparirò”

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Dopo un ritorno sui social a seguito di un periodo di stop, a distanza di un anno il comeback di Mudimbi porta con sé due nuovi singoli. Dopo aver ascoltato in loop “AH”, aspettando l’uscita di “SPARIRÒ” – online da una settimana e già super ricondivisa –, abbiamo contattato Michel per chiedere qualche curiosità. Il risultato è stata una piacevole chiacchierata su questi ultimi anni, dal lancio sul grande schermo a Sanremo 2018 con “Mago” e il terzo posto nella categoria giovani, al desiderio di prendersi una pausa dopo l’uscita di Miguel nel 2020. Il ritorno con le live sui social, la nascita della speciale community dei Mini-Mu e l’attuale uscita di un nuovo progetto, dimostra come Mudimbi abbia mille modi per reinventarsi e condividersi con il pubblico. Come? Restando se stesso.

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Rompiamo il ghiaccio: AH. Per me parla dell’ansia provata nel non adattarsi allo stato attuale. Ma, è anche il singolo del tuo ritorno. Parlamene tu.

Diciamo che non ho riflettuto molto, come quasi sempre quando scrivo, su cosa realmente volessi dire con quella canzone. Piuttosto mi sono fatto guidare da una serie di sensazioni e sono partito proprio dalla strumentale in sé. Prima ho scritto la musica, poi quella musica per me particolarmente divertente – che è ‘ste quattro note, un po’ stupida e un po’ giocherellona –, mi hanno fatto pensare di mettere qualcosa che sia esattamente all’opposto come sensazione. Qualcosa che mi dia la possibilità di sfogare tutta la frustrazione che posso aver accumulato, o intercettato quotidianamente. Anche perché, quando scrivo, ci metto sì del mio ma anche tanto di quello che capto in giro dalle persone che mi stanno vicine, dalle storie che sento e dalle cose che vedo. Tra l’altro, ho molto riflettuto anche sul titolo, ovvero su dove mettere la “H”, se prima o dopo (ride). Essendo qualcosa che doveva simulare l’ansimare, pensavo che la “A” posta prima simboleggiasse tendenzialmente l’aspirazione; però, può essere anche un’esclamazione, ma anche la “A” di una risata, mettendone due/tre di fila. Questa ambivalenza, secondo me incarna proprio lo spirito della canzone. Alla prima dà molta energia, c’è uno sfogo: io la trovo divertente, mia madre anche, soprattutto la parte in cui dico che mi impicco, non so perché, ma grazie mamma! Devo dire che quest’insieme di sensazioni è una cosa che faccio di solito: quando la canzone è particolarmente aggressiva, in realtà sotto c’è dell’ironia; quando è particolarmente positiva, c’è della frustrazione. Prendi il Mago, sembra una canzone felicissima ma in realtà metto insieme una serie di sfighe. Quindi in “AH”, secondo me, c’è tutto questo mondo messo insieme al mio pregresso. Ci tengo a specificarlo, senza però tutta questa esasperazione di dovermi sfogare.

Colgo la palla per chiederti una curiosità. Tutti i tuoi pezzi hanno questa caratteristica che, passami il termine, in mezzo allo sclero spunta la frase dove ti si riconosce. Questo sfogo, come lo vivi all’interno dei testi?

Beh, molto ricercato. Io sono un perfezionista – che sta cercando di smetterla -, quindi tendo sempre a curare molto. Per questo sono sempre andato male nel freestyle, perché non mi piace particolarmente improvvisare una cosa anche in maniera emotiva, preferisco ragionarla e soppesarla. Voglio essere certo di poter fare la miglior versione di quella cosa, quindi se devo scrivere una frase, voglio che incarni nella miglior maniera possibile, ovviamente secondo me, quello che è il mio pensiero. Quando vado a scrivere, spesso cerco davvero di andare a mettere anche più emozioni, o perlomeno spero di poter suscitare più emozioni diverse nell’ascoltatore, anche nella stessa frase. Il classico sapore agrodolce. Fondamentalmente, è quello che cerco sempre. Innanzitutto, di propinarla anche all’ascoltatore più svogliato: se uno non ha voglia di stare a prestare troppa attenzione alle mie parole, ha tutto il diritto. Quindi cerco di scrivere in una maniera che innanzitutto debba sbracciare per cercare l’attenzione della persona più svogliata e più distratta, con frasi particolarmente taglienti e immagini particolarmente colorite. Poi se hai quel minimo di pazienza, o comunque la canzone in sé risulta interessante, ad altri ascolti, man mano, inizierai a cogliere delle sfumature.

Mi viene da pensare, non conoscendoti personalmente, è un po’ la metafora della tua vita?

Il mio modo di scrivere è – più o meno, mettiamoci tante virgolette – molto in linea con il mio modo di vivere, di vivere anche interiormente: di come io parlo a me stesso, con gli stessi toni. Ovviamente, quando scrivo una canzone posso spaziare e dire la qualunque perché sto veramente creando dei mondi che non esistono al di là di quella canzone, o che perlomeno, io li sto creando in quella canzone. Quando invece si tratta di me, analizzo quello che è il mio vissuto, quello che sto vivendo nelle cose che mi stanno capitando: le analizzo con la stessa cinicità, ironia, intelligenza, obiettività. Mi fa molto piacere essere tornato. Sono uscito dal mio guscio più o meno un anno fa, prima con le live e poi sui vari social, fondamentalmente soltanto parlando – cantavo tipo una volta al mese -, ma di base ho solo parlato. In realtà, io per lo meno, lo reputo molto in linea al mio modo di scrivere, di fare canzoni, di creare arte. Non credo che qualcuno abbia mai avuto la sensazione che una delle due cose sia palesemente finta (me l’hanno detto, non me lo sto dicendo da solo – ride).

Per l’appunto. Un anno fa torni sui social con le live e pian piano è nata una community molto ampia e attiva, cosa non facile per una persona che nasce rapper e non oratore. Ho notato però che durante le live c’è una ricerca di contenuti da parte dei fan: sono molto partecipi, fanno domande e cercano i tuoi consigli.

Sì, assolutamente! Abbiamo affrontato svariati argomenti anche abbastanza di spessore, ed è una cosa che onestamente mi rende orgoglioso. Diverse fasce d’età. E questo, anche, è una cosa che personalmente mi serve. Il punto di vista di un quattordicenne m’interessa: sia perché io non ricordo più il mio, sia perché io non vivevo nello stesso mondo in cui vive un quattordicenne oggi. I miei coetanei, piuttosto che gente più adulta: mi seguono in live con i genitori! Ho scoperto un mondo lì che non saprei ben definire. La domanda più tricky finora me l’ha fatta questo ragazzo chiedendomi: “Ma noi cosa siamo? Siamo amici?”. Io non so dare una risposta. Ovviamente, la prima cosa che dico è no: perché comunque, amico, per lo meno devo poterlo vedere in faccia, un numero di telefono, cioè le interazioni base (ride). Però non riesco nemmeno a vederlo come si vedeva il fan dieci anni fa, è qualcosa di diverso. Soprattutto nel periodo in cui stremmavo veramente tanto (un giorno sì e uno no, con live di 2/3 ore, sono arrivato anche a 7 ore), parlando molto, vedendo loro i miei stati d’animo attraverso anche la mia quotidianità: ovvio che quelle persone sanno molte più cose di me, si crea un rapporto che sta a metà tra l’amicizia classica e il classico fan. Perciò per come la vedo io, per il tipo di persona che sono, per il tipo di modo che ho di affrontare i discorsi e scavare, non potrei mai intrattenermi con una community parlando solo del più e del meno. A una certa, io stesso ho chiesto “ciccia” a livello argomentativo anche da parte loro. Domande troppo superficiali, parlare sempre della mia musica o delle mie canzoni, diventa uno sfinimento. Ma anche per loro diventa super noioso, perché stanno lì a sentir ripetere sempre le stesse cose: tipo lo zio rincoglionito che tutti i Natali raccontano le stesse storielle. Per favore non fatemi diventare quello zio! Quindi, è questo mi ha aiutato molto. Avere questa community, – seppur piccola – è comunque un impegno, c’è gente che deve stare lì per un’ora, due ore -, è veramente quello che mi ha fatto riprendere il baricentro. Caparezza mi disse: “lo zoccolo duro”. Ci siamo confrontati più volte sui vari rinculi da fama improvvisa: io post Sanremo gli ho ovviamente raccontato la mia storia, lui mi ha raccontato la sua. Mi ha detto che si era trovato in un momento in cui tutta la bolla era scoppiata ed erano rimasti quattro gatti. Lì, avere la lucidità mentale di pensare: non ho perso tutto quello che avevo, ma semplicemente non avevo tutto quello che vedevo; era passeggero, era una bolla, è stato bello finché c’è stato, questi pochi che ci sono ora, questo, è lo zoccolo duro. Da qui, devo iniziare a costruire perché queste persone sono quelle che ti fanno capire chi è veramente il tuo pubblico, chi si è veramente affezionato e come si relaziona qualcuno veramente appassionato a quello che fai: trarre giovamento, e io direi anche nutrimento emotivo, da questa cosa. E sì, risposta lunga alla tua domanda breve, ma è questo.

Mi stai facendo riflettere. Tanti si sono trovati al tuo posto e non sono riusciti a gestirla. Tu piuttosto che buttarti a terra, sei rimasto sulla tua barca scegliendo quando fermarti e come dedicarti alle tue cose. Soprattutto, quando produrre perché avevi qualcosa da dire.

Riflettendo su cosa vedevo guardando in avanti ai tempi, sicuramente è stata una decisione molto lucida quella di fermarmi. Sono della parrocchia che se non sei sicuro, non sai cosa vuoi fare, non hai la spinta e c’è solo della confusione: non fare niente, prenditi del tempo. A meno che non ci sia una scadenza, il famoso treno che passa una volta – che poi, questo treno che passa una volta, lo vorrei vedere. In quel momento, anni fa, ho avuto questa sensazione. Sono subentrate delle dinamiche più grandi di me, o comunque su cui io non posso intervenire: contratti, grande esposizione, questo e quello…qual è l’unica cosa che posso fare? Fermarmi. Proprio, piantare i piedi qui e fermarmi. E poi, capire col tempo. Dopo un po’ mi sono reso conto che quello che volevo era effettivamente venire dimenticato. Mi ero portato dietro una mole di pubblico e di numeri che non conoscevo e non mi conoscevano. Ai tempi, non ero così confident nell’espormi e solo da qualche anno è diventato cool essere real. Ho iniziato perciò a dirmi: io, non so veramente cosa dovrei fare e anche quello che mi dicono che dovrei fare, non lo sento mio e non capisco perché lo dovrei fare. L’unica frase che mi sono sempre ripetuto è che se volevo fare qualcosa che non mi andava, rimanevo a fare il meccanico: se ho scelto di intraprendere questa crociata, per lo meno devo dipendere in larga parte dalle mie scelte, giuste o sbagliate. Ho ancora della strada da fare, però il mio bisogno di capire che cosa sta succedendo e perché non sto capendo cosa mi sta succedendo, anche interiormente, è una cosa che ad oggi mi ha perlomeno aiutato. Poi non posso sapere come sarebbe andata, però da quello che ho visto e che ho vissuto, do il merito a questo. La fermezza nel dire: mi prendo un attimo perché non ne vale la pena; piuttosto che andarmi a sfiancare, mi fermo.

Anche se mi hai largamente risposto su ciò, in maniera più semplice e profonda: cosa ti ha portato fino ad oggi a non mollare mai la musica durante tutte queste fasi?

Ti do la risposta più breve del mondo: perché mi fa stare bene, perché mi piace. Non sento proprio lo stimolo di andare a cercare altro. Mi piace anche tutta questa sofferenza. Sento di fare qualcosa di utile a me stesso, di vivere la mia vita. È il motivo per cui ho mollato il mio posto di lavoro dopo dieci anni con contratto a tempo indeterminato: sentivo di non star vivendo. Tutto quello che facevo sentivo che cadeva nel vuoto e non stavo mettendo niente nel mio bagaglio di vita, nella mia storia, nel film Michel. Stavo vivendo un film scritto, diretto e girato da qualcun altro. Invece adesso anche nella sfiga più totale, va bene così. Me l’hanno anche detto, mi rendo conto che da fuori questa mia tenacia possa apparire un esempio da seguire – per lo meno per questo, per la tenacia, poi ho mille difetti -, però ti dico che da dentro io questa cosa non la percepisco. Non è un sottovalutarmi, però è chiaro che le cose finché ci sei dentro, non le riesci a vedere come le persone da fuori, quindi per me è la norma. A me metterebbe molta più angoscia e paura l’idea di andare a cercare altro. Sia perché sto lasciando qualcosa che mi piace, e quindi mi si spezzerebbe il cuore. Sentirei di aver abbandonato mio figlio, perché lo devo fare? E poi, soprattutto, so di non avere ancora dato nemmeno il massimo, di non aver dato niente (ride).

A questo punto, che sapore ha questo ritorno?

Ti dico attualmente la prima parola che mi viene in mente, sembra una ruffianata ma giuro, tanta riconoscenza per ciò che mi sta arrivando dalle persone. Se prendo una calcolatrice, di numeri non sta succedendo niente di devastante. Fermo restando che non ho nemmeno il paragone, perché le ultime cose sono uscite in pandemia e prima c’è stato Sanremo, quindi non ho niente con cui confrontare. Non è però un discorso di numeri, ma di come io in primis mi sono messo a disposizione, entro i limiti della mia community e del mio pubblico: sono uno che legge i messaggi, risponde quasi a tutti e quasi sempre, nei limiti delle mie possibilità. E dall’altra parte, vedo che c’è, non so come chiamarlo, ma qualcosa di positivo. C’è gente che si spende per scrivere messaggi in cui ti racconta qualcosa, anche solo la sua sensazione riguardo la canzone, ma in una maniera più articolata di un semplice “bella per te”. E a me arriva la componente umana. L’interazione – ripeto, non voglio fare lo smielato – è qualcosa che a tratti quasi mi commuove, perché vedo gente che ci sta tenendo a quello che faccio, mi arriva, mi sta arrivando anche perché sono io in primis più in contatto con loro. Magari prima succedeva, come la maggior parte degli artisti e creator, di non leggere tutti i messaggi, per motivi più che leciti. Attualmente non sto guardando numeri, però mi sta arrivando quella sensazione che ci sono persone che si sono appassionate al mio percorso, alla mia persona, al mio personaggio, alla mia arte. Mi arriva questa linfa positiva che mi fa dire: sta andando bene. Io sono comunque soddisfatto: sono in pace in questo momento, poi bisogna vedere domani quando mi sveglierò. Però in questo momento sono in pace.

Quanto di questa linfa c’è in questo ritorno e nei prossimi pezzi?

Ti posso dare due risposte. Sia che ce n’è zero, perché all’atto pratico quando scrivo sono solo io: è tutto totalmente chiuso in me stesso, è il mio parco giochi e non mi interessa nulla di quello che mi sta succedendo fuori in quel momento. Da un punto di vista artistico c’è quindi sicuramente la totalità di me. Dal punto di vista, invece, della spinta e della voglia di fare, non so dare una percentuale, ma sarebbe una veramente alta: di spinta e incoraggiamento che mi è arrivato dagli altri, sia dalle persone con cui sto lavorando e sia da, in primis, la mia micro community nata su Twitch, ossia i Mini-Mu. Sono loro a darmi la sensazione di: ” oh, se ci credono loro, perché non ci devo credere io?”, se non ci credo io per primo, prima o poi, si stancheranno pure loro. Da questo punto di vista, la spinta è sicuramente anche merito dell’affetto ricevuto e di quanto gli altri mi abbiano dimostrato di crederci.

L’essere così reale sui social non si trova facilmente al giorno d’oggi. Soprattutto, senza il bypassaggio di un curatore social, trovare qualcuno disposto a parlare così attivamente con i suoi fan, ma soprattutto, ad ascoltarli, penso sia un valore aggiunto.

In questo mi ha veramente salvato la dinamica delle live. L’ho cercata quando ho deciso un anno fa di tornare per dare spiegazioni, perché c’era gente che continuava a scrivermi a distanza di anni di silenzio, anche perché non ho mai raccontato niente di me e di cosa mi fosse successo nella testa. Ho ragionato molto su come fare questo ritorno, quale fosse la forma che mi facesse stare più in pace con me stesso, la più onesta con quello che dovevo dire e come dovessi dirlo, e che fosse anche la più efficace. Avevo pensato tanti modi, però mi rimaneva sempre l’ansia di preparare e inscatolare contenuti che perdono naturalezza e spontaneità. Per questo ho provato Twitch, su cui non avevo neanche pubblico ma pochi veramente interessati. Questa dimensione live mi è stata super utile sia nell’esporre quello che dovevo, sia nell’espormi e nel mostrarmi perché nessuno mi aveva mai visto parlare in una situazione che non fosse un’intervista. Anche, la mia salvezza è stata la live perché ad oggi il 99% di tutto quello che c’è sui social, non sono altro che estratti delle live. Per questo arriva tanto la spontaneità, perché lì sto solo parlando in maniera randomica, a seconda di qual è l’argomento, la domanda o la battuta. Ho provato a preparare dei video dove raccontavo delle cose ma non li ho mai postati perché non mi riconoscevo: era palese che non ero io, stavo ripetendo a memoria qualcosa che avevo scritto prima. Ho già la mia sfera in cui costruisco all’infinito, è la musica. Lì faccio qualsiasi cosa, persino cantare con quella che non è la mia voce naturale, interpretare personaggi: ho un mondo a disposizione. Non posso portarmi ovunque questo bisogno di nascondermi, di mettermi qualcosa davanti come fosse una maschera o un costume. Ai tempi mi fece venire anche il dubbio su quanto io mi fossi o non mi fossi ancora accettato come persona, e quindi la paura di espormi come Michel e se mantenere il personaggio di Mudimbi. La live è stata veramente utilissima per questo aspetto, perché mi ha fatto far pace tra Michel e Mudimbi, che forse sono la stessa identica cosa e l’unico che non l’aveva realmente capito ero io.

Roberta Fusco

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