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“Quello che abbiamo in testa” è un racconto di Sumaya Abdel Qader, pubblicato a novembre del 2019. L’autrice, nata a Perugia con orgini giordane e laureata in Biologia, Mediazione Linguistica e Sociologia, nel 2016 è stata la prima consigliera comunale musulmana a Milano. Nonostante lei viva in Italia dalla sua nascita, si ritrova ancora a battersi contro il giudizio legato all’utilizzo del velo, diventando oggetto di critiche e commenti negativi.
La battaglia svolta da lei e da tante donne musulmane, porta la Qader alla scrittura di un racconto leggero, riflessivo e che mette luce su cosa significa l’integrazione ciò che realmente simbolizza l’utilizzo del velo.
La protagonista è Horra, una donna di quarant’anni, di origini giordane che vive a Milano e si destreggia tra l’università, il lavoro da segretaria in uno studio di avvocati, l’attività di volontariato, le amiche e la sua famiglia, composta da un marito amorevole e due figlie che adora.
Piuttosto che un alter-ego della scrittrice, come menzionato nell’incipit, Horra è la rappresentazione di una donna comune che raccoglie l’insieme di esperienze e fatti ispirati a storie realmente accadute. Difatti, attraverso vicende di vita quotidiana, all’apparenza futili, vengono suggeriti spunti di riflessione religiosi e non, sradicando pregiudizi e sfatando preconcetti.
Per l’appunto, all’inizio del racconto, durante una passeggiata di shopping per le vie di Milano, Horra e le sue amiche vengono infastidite dal commento di un uomo che le osserva con sospetto e quasi derisione proprio a causa dell’indumento che portano sul capo.
Da qui, il punto di inizio di una lunga riflessione sulla libertà, che toccherà l’apice nel momento in cui, la donna, in preda alla rabbia per una serie di eventi raccontati, scriverà un post su Facebook:
“Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi un atto ribelle e femminista”.
Per Horra, il cui nome significa “Libera”, il velo è proprio questo: libertà, una scelta individuale, non imposta dai familiari o dalle circostanze, ma l’espressione della propria identità. Le critiche a una tale contestazione sono molte, ma Horra le combatte, ammettendo che purtroppo in molte comunità musulmane il velo è una legge imposta alle donne per controllarle e sminuirle; ciononostante, vi è il bisogno di rompere il pregiudizio che le donne dell’Islam siano tutte oppresse, in quanto l’oppressione esiste in molte forme anche in culture che non siano islamiche.
Emerge che il problema reale siano le ideologie sbagliate che inducono al sospetto e alla paura, instillati in una visione nociva dell’altro, diverso da ciò che ci è familiare e quindi considerato giusto. Oppressione è in realtà l’obbligo di dover rispettare un determinato canone, paragonabile alla costrizione sociale legata all’abbigliamento, dove l’utilizzo della minigonna e dei tacchi sono obblighi e simboli di sensualità e femminilità.
Rispettare degli obblighi non è quindi imposizione religiosa, piuttosto umana, basata su preconcetti fissati e spesso sbagliati. Ciò rende il libro fortemente attuale e lo si consiglia alla lettura, in quanto in “Quello che abbiamo in testa”, Sumaya Abdel Qader tenta di cancellare tutto il marcio intorno al razzismo, mostrando la realtà dei fatti: siamo tutti individui uguali nonostante le differenze culturali e religiose. Piuttosto che soffermarsi sulle differenze, la Qader prova la linea d’integrazione alternativa che dovrebbe affermarsi, basata su ciò che rappresenta di più il romanzo: la Libertà.
Roberta Fusco