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“Il male esiste, e si chiama Malombra. Devi distruggerlo. Solo così troverai la pace.”
Così si legge sulla quarta di copertina di un romanzo intrigante, coinvolgente e arricchente che merita attenzione e condivisione.
Credo che già il breve testo su riportato sia eloquente e susciti curiosità, voglia di addentrarsi subito in una storia unica che ti prende fin dalla prima pagina.
Ebbene sì, “Il cacciatore di Tarante” di Martin Rua presenta queste peculiarità: più di trecento pagine che si leggono di un fiato e senza fiato lasciano il lettore dalla prima all’ultima pagina, ponendolo in un accattivante stato di tensione che trasporta in una dimensione di sospensione del tempo e della routine quotidiana.
Il romanzo, (pubblicato nel 2020 da Rizzoli, 368 pagine, euro 19,00) è un thriller di grande spessore culturale.
Il testo, infatti, va al di là del semplice intreccio con le sequenze logiche e la struttura di una storia che appartiene a tale tipologia. Naturalmente ciò non manca, ma in esso in modo armonioso convergono elementi diversi frutto di ricerche antropologiche sugli aspetti etnici e tradizionali, conoscenze psicologiche, approfondimenti geo-storici e scientifici.
Il tutto è condito da un registro linguistico, raffinato e preciso al contempo, che consente non solo il gusto della lettura, ma anche l’immediatezza di immagini, di percezione di odori, di colori, di suoni e di presenze. Ci si immedesima nei diversi protagonisti attraverso introspezioni psicologiche che dirigono verso i pensieri, gli stati d’animo, le sensazioni, le paure, le ansie, i sensi di colpa che dimorano nel loro intimo.
Si fa un viaggio a ritroso nel tempo e si giunge nel 1870. Napoli diventa il centro propulsore che unisce Torino al Salento e i luoghi parlano, respirano e diventano anch’essi protagonisti: le strade di Torino lambite dal Po, il desolante borgo Vanchigia, il Vesuvio “col suo inconfondibile pennacchio” e con la sua inquietante maestosità, il palazzo Donn’Anna con i suoi misteri ed i suoi spettri impressi nelle grotte di tufo e specchiati nelle onde che ne lambiscono corpo, la Cappella di San Severo con la sua bellezza disarmante e misteriosa, il dedalo di vicoli e piazze del centro storico napoletano in cui si espandono profumi di Genovese e ragù, i vicoli del Mandracchio, l’altopiano delle Murge, Galatina, il “panorama salentino costellato di ulivi a perdita d’occhio…ulivi così contorti… quasi scherzi di natura e sculture bizzarre…”
E nella storica diatriba tra nord e sud intrisa di contraddizioni, dissapori, rancori, desiderio di rivalsa e riscatto, all’indomani dell’Unità d’Italia si muovono i protagonisti, l’ispettore Dell’Olmo e il duca Carlo Caracciolo de Sangro con al seguito svariati personaggi. I loro pensieri, le loro rabbie, i loro sensi di colpa, il loro background impreziosiscono la trama di intimismo. Esprimono, altresì, in modo storicamente e socialmente interessante, il conflitto tra la tendenza prepotente della “piemontesizzazione” e la reazione coraggiosa dei briganti. “Non aveva mai avuti particolare simpatia per i meridionali, nobili o pezzenti: perché avrebbe dovuto incominciare ora?”
Tutto conduce ad “Ariadne”, teatro della storia, una località fantastica simbolica, una Macondo del Salento, che nel nome e nelle vicende ne diventa l’anima tormentata dalla presenza della malmignatta, la taranta che assume nell’immaginario le sembianze di un demone che torna e “reclama il suo tributo di sangue”, “pizzicando” e iniettando quel veleno che muove passi sfrenati di danze liberatorie e purificatrici in una catarsi ritmata e vorticosa.
Le vicende fluiscono in un intricato “labirinto” tra aneddoti, flashback, citazioni, tradizioni, filastrocche e colorite espressioni in dialetto, danze compulsive, leggende, indagini, fantasmi, magie, simboli esoterici, azioni, suspence, colpi di scena, sentimenti e pulsioni istintive e primordiali. I ricordi riaffiorano e si materializzano, mettendo in guardia e consigliando.
Martin Rua con “Il cacciatore di tarante” ha avuto il merito di coniugare intreccio con cultura, storia e riflessioni di carattere socio- psicologico. Si tratta di un romanzo fuori dal comune, dunque, che non solo appaga il lettore e la sua curiosità, ma costituisce anche un arricchimento culturale e intimistico.
Daniela Vellani