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Nonostante il Coronavirus abbia costretto l’Italia intera a fermarsi e a chiudersi in isolamento, c’è chi ha deciso di ignorare questo ‘stop’ alla vita, dedicandosi al proprio lavoro. Così ha fatto Davide Gambardella, scrittore del napoletano, che dal 2002 ha iniziato la sua carriera come giornalista, lavorando per importanti giornali tra cui “Il Mattino”, “La Stampa”, “Il Messaggero” e che a luglio di quest’anno ha pubblicato il suo primo romanzo breve.
“Storia di un (quasi) amore in quarantena” racconta di come due persone hanno cercato di sopravvivere al periodo di stasi, indotto dalla quarantena, aggirando i decreti del governo per poter condividere attimi di intimità, buon cibo e buon vino, accompagnati da droghe leggere, per non soccombere alla noia, che ha invaso le vite di tutti da marzo.
“Ma Tatiana ed io eravamo ancora vivi. E volevamo continuare a sentirci tali, anche se il mondo intorno a noi moriva un po’ alla volta. Nonostante tutto e tutti – lei disoccupata ed io con il lavoro ridotto sempre più all’osso – cercavamo di non pensare al fatto che i nostri conti fossero sempre più al verde.”
Il libro sembra partire con buone intenzioni, riportando le problematiche che molti hanno dovuto affrontare: Tatiana si ritrova da un giorno all’altro senza lavoro, col conto in rosso e senza sapere bene a chi rivolgersi per fare domanda per un sussidio, che l’avrebbe aiutata ad arrivare alla fine della quarantena, sperando di riuscire poi a trovare un nuovo impiego. Il protagonista maschile, il cui nome non viene detto, forse per aiutare il lettore ad immedesimarsi, è un giornalista costretto a lavorare da casa, utilizzando la modalità dello smart-working, che tutti hanno dovuto adottare, ma pochi hanno fatto realmente funzionare.
Il libro è una cronaca della quarantena italiana, coi cori sui balconi e i balletti su Tiktok, che hanno tenuto impegnati milioni di persone; i bollettini del telegiornale e i DPCM che tenevano svegli fino a tardi, in attesa di una qualche buona notizia.
Sebbene il romanzo tratti tematiche vicine al lettore, vi sono alcuni passaggi che lo lasciano interdetto. Per esempio, nelle prime pagine è presente un pensiero implicito che allude ad uno stereotipo sulle donne, tutte unghie e capelli, disinteressate a leggere qualsiasi cosa si discosti dal loro mondo rose e fiori; e circa verso la metà del libro, troviamo la descrizione di un atto semplice come mangiare il gelato, raccontato con termini più che allusivi.
“Non mi capitava spesso che una donna mi chiedesse con sincerità disarmante di leggere qualcosa scritta da me. O meglio, poche volte ho trovato donne sinceramente interessate ad un tipo di lettura che non riguardasse la classica storia da romanzo rosa.”
“Era bravissima, a leccare il gelato su quel cucchiaio. Lo faceva con la bravura figlia dell’esperienza […] Affondava con la bocca fino a farlo scomparire, quel cucchiaio.”
La scrittura è liberta di parola, di espressione: è lo strumento che ci permette di comunicare al lettore un messaggio, quindi il linguaggio che utilizziamo è importante. Probabilmente, un linguaggio meno crudo e schietto, avrebbe fatto passare con molta più facilità il messaggio dell’autore. Il Coronavirus è stato un fulmine a ciel sereno, ha costretto le persone a mettere in pausa la loro vita, ma al tempo stesso ha permesso di riscoprire le piccole cose, quei piaceri che la frenesia del mondo odierno aveva precluso.
Maria Anna Mazzei