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Capita, a volte, che ci si ritrovi a fare delle riflessioni, senza sapere neanche il perché, o magari il perché lo si sa e allora si decide di condividere i propri pensieri con altre persone, per avere un altro punto di vista.
“Si volge ad attendere il futuro solo chi non sa vivere il presente” (Seneca).
“Afferra il giorno che passa e non fare nessun affidamento sul domani” (Quinto Orazio Flacco)
“Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita “(Federico Fellini).
A Napoli non esiste il futuro, o meglio, nella nostra lingua non esiste la forma verbale del “futuro”..
Può sembrare strano, impossibile, o sarà che non conosciamo il modo di coniugarlo… e invece no, è proprio così… non esiste.
I napoletani, ma a quanto pare in tutto il Sud, per indicare un’azione che si svolgerà nel futuro si usa l’indicativo presente, cioè il modo e il tempo della certezza, dando per scontato che la cosa accadrà:” diman vac a Roma” (domani vado a Roma), oppure il condizionale, il modo dell’incertezza, della possibilità: “je avarrìa partì diman pe’ Roma” (dovrei partire domani per Roma) quando invece non dipende totalmente dalla nostra volontà e qualcuno ci può sempre mettere lo zampino.
Lasciando da parte il caso in cui l’azione è obbligata – “a settimana prossima aggia ji a Roma” – (la settimana prossima devo andare a Roma), questo “dover fare necessariamente qualcosa” esiste anche in altre lingue (si pensi anche all’inglese “I have to do”).
Ma se questo è un dato di fatto, la curiosità spinge a cercare di capire perché è così nel nostro “dialetto”, anche perché è incontrovertibile che nel linguaggio, soprattutto in quello popolare, quello verace, non sistematizzato, è nascosta la nostra idea della “vita”..
Perché a Napoli è così forte l’idea del presente? Perché è l’unico tempo che le è consentito.
È un tempo che le permette di sentirsi appunto VIVA a dispetto di un passato costellato di avversità e difficoltà, e di un futuro ingannatore che potrebbe all’improvviso negarsi..
Napoli non può dimenticare le difficoltà del passato, e questo fardello, inscritto nel suo DNA, oscura in maniera ineluttabile la sua percezione del “futuro”, che viene avvertito, in maniera più forte rispetto ad altre popolazioni, vivendolo in modo precario, viene affidato alla “Ciorta” (fortuna).
Per cui anche se si organizza, si pianifica non si dirà mai : “andrò in vacanza”, forse per il timore di far adirare forze soprannaturali, perché si è voluto prendere in mano la nostra vita e farcene protagonisti. Oppure incorrere in scatenamenti di invidia da parte degli altri [ i famosi “uocchje ‘ncuollo” (gli occhi addosso) che tanto assillano i partenopei, a volte più delle sciagure vere e proprie], per cui si potrà dire: “int’ a stagione avessa ji a villeggia’” intendendo, mi piacerebbe, avrei anche tutte le buone intenzioni, ma se a qualcuno la cosa non è gradita.. “pozz’ pur rimanda’”(posso anche rimandare).
E allora tutto appare più chiaro, addirittura logico; non è questione di sfrenato edonismo, non è la ricerca spasmodica del “carpe diem” il nostro vivere alla giornata (anche se…) ma la paura del domani, l’angosciosa consapevolezza che non tutto è nelle nostre mani, abituati a sciagure naturali che si abbattono all’improvviso o anche il soccombere a voleri più forti, che ci ha forgiato condizionando il nostro modo di parlare, ed anche di fare. Immersi nel presente, il “futuro” non esiste neanche verbalmente, resta aleatorio. È una possibilità che noi inevitabilmente subiremo senza cruccio eccessivo, tanto, quando viene, è PRESENTE.
Condividendo un pensiero si ha la probabilità che ci sia qualcuno che possa replicare, così come ha fatto in questa nota il Professor Salvatore Niccoli, che ci fa piacere condividere.
“Però mi dispiace veder togliermi un futuro che è servito tanto a don Salvatore, al caro Ernesto, a don Ferdinando, a Eduardo esponenti del secolo scorso, Gennaro Esposito, Vincenzo Fasciglione, Renato Cammarota Salvatore Niccoli, di questo.
A ragione si può rilevare che il futuro, specie nella parlata quotidiana, spesso è sostituito dal presente, e lo sarà sempre più perché forma semplice, foneticamente più economica, conveniente oltre che per le ragioni storiche e sociologiche individuate nella nota di sopra. Anche in italiano stiamo assistendo a questo e ad altri fenomeni morfologici pari a quanti ne hai riscontrati nel succedersi dei secoli scorsi .D’altro canto si può ricordare (avendolo studiato al liceo ) che la lingua viva è viva in quanto si modifica; diversamente è morta: vedi il latino, il greco classico, il sanscrito –
In sostanza, una lingua segue l’alternanza delle due leggi, l’analogia e l’anomalia, la prima codifica rigidamente nella grammatica la morfologia del momento come definitiva, diremmo per la lingua scritta, mentre l’anomalia demolisce ininterrottamente questa rigidità dell’analogia imponendo le sempre nuove esigenze del parlato quotidiano. E finché il gioco continua la lingua resta viva.
Fortuna Peranio